Da shopping a shopping experience: rischi ed opportunità

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Ultimamente si parla molto di “shopping experience“, si tratta dell’evoluzione che avviene con  il passaggio dal semplice shopping a qualcosa di più completo e coinvolgente per il cliente, il mezzo per aggiungere contenuti ed un valore ulteriore alla semplice vendita. Con la saturazione del mercato dei beni di consumo, dove gli stessi prodotti sono acquistabili indifferentemente tramite una pluralità di canali distributivi, i punti vendita tradizionali hanno la necessità di offrire una esperienza che porti il cliente a frequentarli.

E’ un processo che ambisce a modificare in profondità il rapporto intercorrente fra il cliente, potenziale acquirente di un bene, ed il venditore dello stesso. La transazione non si limita infatti più solamente allo scambio del bene a fronte della corresponsione del prezzo, implica invece un trasferimento di ulteriori contenuti immateriali aggiuntivi al bene. Principalmente si tratta di abbinare alla vendita una serie di servizi, benefit che hanno lo scopo di incrementare la percezione di valore incorporata nel bene stesso oltre che fare si che valga la pena andare nello store, creando una esperienza che lo differenzia dalla concorrenza. L’esperienza proposta può essere più o meno completa e coinvolgente, può avere inizio fin dall’ ingresso ed accoglienza del cliente nel punto vendita, per poi affinarsi durante la presentazione del prodotto e proseguire nel post vendita.

Ritz-Carlton motto: “Ladies and Gentlemen serving Ladies and Gentlemen”

A questo proposito il settore dell’hotellerie di lusso, business che per differenziarsi si affida solitamente alla prestazioni di servizi a particolare valore aggiunto, è spesso preso ad esempio per realizzare efficacemente progetti di “shopping experience”. Il meccanismo, se è implementato in modo corretto ma soprattutto coerente, porta indubbi vantaggi sia in termini di posizionamento di marchio che di valore percepito del prodotto, con il risultato finale di incrementare i ricavi ma ovviamente anche i costi di vendita e le problematiche gestionali.

Il difficile come al solito è nell’implementazione del processo, più si alza il livello di servizio incorporato nell’experience, maggiore è l’aspettativa del cliente, cosi che arrivati ad un certo punto non viene perdonata neppure la più piccola sbavatura. L’asticella viene alzata talmente tanto da diventare difficilmente sostenibile per l’azienda, generando così facilmente un effetto boomerang. Paradossalmente la “shopping experience” da elemento positivo e di valore aggiunto, può trasformarsi in un elemento negativo, evidenziando una criticità o una mancanza altrimenti non percepita o addirittura inesistente. Non c’è niente di peggio infatti che coltivare delle illusioni e poi disattenderle, l’effetto boomerang è assicurato.

L’aneddotica è piena di casi di personale che si comporta in modo scortese invadente o inopportuno nei confronti dei clienti, così come di tecnologie o strutture concepite per stupire o facilitare l’interazione, rivelatisi invece nella pratica non funzionali, invasive o sgradevoli oppure addirittura non funzionanti. Per minimizzare il rischio di un possibile effetto boomerang si può incidere su molteplici aspetti che compongono l’esperienza, dalla accurata selezione e formazione del personale, alla progettazione razionale e funzionale del punto vendita, alla predisposizione di precise metodologie operative e di controllo. Ovviamente non esiste una ricetta precostituita per la perfetta “shopping experience”, comunque un aspetto preliminare e molto importante da valutare è quello relativo alla coerenza della proposta nel suo complesso.  Si deve fare molta attenzione alla coerenza fra il marchio e la sua percezione da parte del pubblico, così come alla proporzionalità fra il prodotto proposto in vendita e l’esperienza che si vuole offrire e fare percepire al cliente.

Vediamo alcuni esempi di esperienze negative che ci sono capitati di recente a Parigi con un marchio americano e un marchio francese.

E’ perfettamente inutile, anzi spesso irritante, offrire un certo servizio di accoglienza del cliente nel punto vendita  anche quando l’acquisto da effettuare è di poco conto. Naturalmente tutti i clienti del brand sono e devono sentirsi importanti, indifferentemente da quanto spendono, però il tempo eccessivo perso nell’attesa, così come l’inutile dispendio di energie e di costi da parte della struttura aziendale, sono percepiti non come una attenzione particolare nei suoi confronti ed un elemento di valore aggiunto nell’acquisto, ma come un sintomo di disorganizzazione del punto vendita. La domanda che il cliente si potrebbe legittimamente porre, è se valga davvero la pena sprecare quasi un ora e mezza del proprio tempo per un oggetto che costa 45 euro. La risposta sarà probabilmente negativa, determinando la convinzione che l’azienda ed ii negozio non sono ben organizzati.

Un altro episodio ugualmente seccante e’ stata una attesa di 20 minuti in fila, all’unica cassa aperta in un flagship store dei più prestigiosi, il negozio trattandosi di un sabato e di peak time  era naturalmente gremito di clienti e di personale, ed altre 3 casse inesorabilmente chiuse. Chissà forse qualche commesso poteva essere dirottato alla cassa per evitare il disservizio, oppure i turni dei cassieri sono male organizzati , in ogni caso fra i clienti della fila l’argomento di discussione principale era il disservizio determinato dall’attesa , nessuno magnificava il prodotto o l’ambiente del negozio che erano veramente fantastici.

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Sono due casi, peraltro non dei più gravi, di quell’effetto boomerang che abbiamo sottolineato precedentemente, il primo dovuto ad una evidente mancanza di proporzionalità, il secondo ad una inammissibile errata gestione del personale. Purtroppo quello che si nota maggiormente è ciò che non funziona anche se è marginale, l’elemento negativo che è inaspettato nella “shopping experience”, prende il sopravvento sulla positività ed eccellenza della proposizione commerciale nel suo complesso rovinando il resto.

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